– Michele Albanese –

Mattarella premia gli italiani impegnati nel civile  due onorificenza al merito per calabresi impegnati

La mattina di domenica faccio finalmente colazione con mia moglie.

Ci sediamo davanti ad un cappuccino e parliamo.  Mentre attendiamo la sua  preparazione sfogliamo il giornale.  Sono attirato da questa notizia e vengo colpito da una forte sensazione di dejavou. Prendo immediatamente il cellulare e cerco fra i miei appunti la parola chiave “Michele Albanese”… e lo trovo!

Incredibilmente l’ho rimosso del tutto. Misteriosa davvero la mente.

Ho incontrato Michele quasi due anni fa, e me ne sono scordato.

Beh, della serie “meglio tardi che mai” ecco cosa ci siamo detti in quell’unico incontro.

AHHHH prima di leggere avanti, scarica il mio libro cliccando quì , questo gesto apparentemente semplice per te, per me invece significa davvero tanto!

Buona lettura.

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Giovanotto, barba troppo lunga!

Ecco finalmente il sole. Non quello pallido dei giorni ombrosi ma quello raggiante e forte delle grandi occasioni.

Sono all’ufficio postale di Cittanova ad adempiere a quelle cose così tediose ma necessarie. Mentre faccio la fila entra un uomo anziano dalla mole notevole. Me ne accorgo perché al suo avanzare lento, viene annunciato da numerosi “Buongiorno”.

Si affianca a me, mi guarda e io lo guardo.

“Giovanotto, barba troppo lunga”.

Impreco nella mia mente…

Stavo appunto, prima del suo arrivo, in quegli attimi eterni di una fila alla posta, chiedendomi quale fosse il modo migliore di presentarmi dall’uomo con cui avevo un appuntamento: redattore de “il quotidiano del sud” e giornalista che definire d’assalto è poco.

Saluto l’anziano signore,mooolto cortesemente.

Esco fuori e vengo investito dalla forza del possente Apollo. Tocco la mia barba che se pur non molto lunga è abbastanza vistosa. Non ho lamette dietro e non è il caso di ricorrere a soluzioni estreme : Michele Albanese mi aspetta.

Nascosti

Ho la consolidata abitudine di usare i piedi ancor più che la testa. Così quando arrivo in un posto mi muovo sempre col mezzo scelto per gli uomini da made natura. Ho il bisogno di vedere da vicino cosa sta succedendo intorno a me, e non mi basta vederlo no, devo anche sentirlo con le mie orecchie e in generale percepirlo con tutti quei sensi che sono coinnvolti nei rapporti umani. Cinquefrondi in effetti è come l’avevo lasciata l’ultima volta, certamente i paesi non cambiano dall’oggi al domani, ma alme o avrei sperato in un alternarsi nei volti fermi al bar in piazza, ma si sa sono le aspettative a lasciare maggiormente delusi.

Chiedo informazioni circa la mia destinazione che mi viene indicata con straordinaria precisione.

Risalgo in auto.

Imbocco la strada, parcheggio e chiedo ad una signora al secondo piano intenta a scrollare un grosso tappeto. Mi indica il portone difronte, ringrazio e mi incammino.

Mi fermo davanti al portone e mi guardo intorno. Dietro la signora al secondo piano si nasconde un uomo barbuto vestito con una tuta scura, mi guarda sospettoso e incrociando il mio sguardo rientra, ma non era lui che cercavo.

Avendo letto la notizia del provvedimento di scorta, mi aspettavo qualcuno di piantonamento.

Suono il campanello e attendo. Sento il rumore di un’auto alle mie spalle che si avvicina molto lentamente. Mi giro in maniera del tutto istintiva : le strisce rosse sulla fiancata non lasciano dubbi.

Il portone si apre e vengo fatto accomodare. Appena gli occhi si abituano alla penombra riesco a riconoscere quello che per me era solo un interlocutore telefonico, si rivolge però direttamente ai carabinieri di scorta facendo un eloquente gesto di rassicurazione. Il portone si chiude alle mie spalle, una stretta di mano e inizia la conversazione, rivedrò quella soglia quasi due ore dopo.

Quel “Voi” di troppo

Aspettavo con ansia quest’incontro.

La persona che ho difronte è così come lo ricordavo, solo vistosamente più stanco. Pacato nella voce, osservatore attento, dalla figura autoritaria, ciò non dimeno accomodante e simpatico.

Si rivolge a me con domande dirette, senza preamboli. Sono teso, forse traspare dal movimento dei miei piedi ma non mi scompongo, in effetti se voglio conoscere devo mostrare.

Nella mia risposta uso le accortezze comuni davanti ad un interlocutore di età maggiore.

Muove le mani come a fermarmi e sento nella mia testa il rumore di quelle sirene da quiz show che ammoniscono il concorrente che ha sbagliato. Faccio un chek up fulminio e non trovo l’errore chiedo mentalmemte l’aiuto del pubblico.

“Dammi del tu. Questo del Voi è un vecchio retaggio che non serve a niente”

Caro lettore, quanto ho faticato e quante e quante volte mi sono dovuto autocorreggere, non prima però di una secondo me, ben argomemtata opposizione. Opposizione che è stata smontata pezzo per pezzo.

“Io non sono superiore a nessuno, non esistono barriere e quelle che ci sono devono essere abbattute. Tutti i miei collaboratori e tutte le persone che entrano nella mia vita sono uguali a me, io non ho fatto nulla più di te. ” Ribatto dicendo che deve invece dare l’opportunita a chi gli sta difronte di riconoscere in un “voi” i numerosi sforzi che lo hanno condotto indubbiamente a notevoli riconoscimenti.

Rimane però inamovibile ” Bisogna riportare i rapporti umani all’uguaglianza. Non esistono signori e servi, ma solo persone. Questi sono abbellimenti che servono alla conversazione ma non aggiungono nulla alla sostanza, al fatto che siamo tutti sullo stesso livello, dobbiamo imparare a condividere le nostre vite “.

N’drangheta: primo contatto

L’uomo per esprimere al meglio ogni sua idea ha sviluppato un vasto sistema fatto di una serie di suoni, così da attribuire ad ogni cosa una parola specifica per indirizzare chi ascolta alla comprensione precisa.

Devo ammettere che tutt’ora, siamo ancora restii a usare la parola n’drangheta, preferendo il più generico termine “mafia” , esprimendo così un idea vaga, lontana, una parola da fiction, inoffensiva. Anch’io caro lettore, ho dovuto ricredermi su molte delle cose che ritenevo ovvie , consolidate e, ancor peggio, sane tradizioni di cui io stesso più volte sono stato promotore.

Cosa ha condotto Michele ad essere definito “uno dei maggiori conoscitori della n’drangheta della piana di gioia tauro?

Cosa, mi chiedo, spinge un uomo a rovistare nel vaso di Pandora, sede di tutte le miserie umane?

A 5 anni, vidi ammazzare un uomo davanti ai miei occhi“incredulo ripeto per essere certo di aver capito , ma faccio una supposizione comune a tutti sintetizzando in ” il primo contatto con la n’drangheta l’hai avuto…” ma vengo corretto ” Non con la n’drangheta ma con la mentalità mafiosa“. Argomento che occuperà buona parte della conversazione successiva.

Si lascia andare al racconto: si appoggia allo schienale della poltrona girevole, accende una sigaretta e guarda lontano, perso dietro il fumo vaporoso del tabacco. Si vede che Michele è uno abituato a trovare le parole giuste. Un vocabolo segue l’altro nel raccontare e mi indirizza come un regista verso i punti sui quali guardare : giurerei di vedere anch’io i lampi che escono dalla pistola fumante, l’uomo cadere a terra, il rumore della carne morta cozzare col marciapiede, gli urli e la frenesia seguente. Cazzo, mi dico, che storia… Non una storia in effetti quanto dal modo in cui è fissato nei ricordi, un trauma degno della migliore casistica Freudiana.

Quello che credevo non esiste più

Questa distinzione esistente tra mentalità mafiosa e mafia vera e propria è una cosa che stuzzica la mia visione delle cose, la indispettisce da dietro l’ordinaria percezione del reale.

Chiedo maggiori dettagli.

Parla dapprincipio dell’assenza di valori dei giovani.

Lo fermo: troppo banale prendersela con i giovani e la loro unica prospettiva di divertimento incoscienzioso, l’ho già sentito. Mentre io continuo la mia invettiva contro un diffuso luogo comune (cosa che penso, dovrò indagare da vicino) Michele indica con la mano fuori dalla grande finestra, e come un incantatore davanti ad un cobra ( che poi sarei io?) cattura la mia attenzione inducendomi a guardare lì . Nel vuoto così creato fra i miei pensieri il narratore si insinua “Hogan, capelli rasati, pantaloni girati, ma ancor di più il modo di salutarsi, di parlare fra loro, il modo di stabilire ordine nelle comitive, rispecchia tutto il modello n’dranghetista. Il modello del tutto e subito. I tempi dello stato sono lenti(necessitano in effetti di parole, di carta scritta, di bolli e uffici nda). Il paradosso della n’drangheta è che ci ha assuefatti all’idea che sono loro a proteggere la nostra vita, sono loro che garantiscono la giustizia” credo di riconoscere una smorfia di disprezzo feroce nella persona che mi sta difronte ” ogni elemento serve da monito esteriore del loro status.” . Così dicendo gli faccio notare che nessuno ne è immune, se anche i santi si inchinano agli uomini ( il primo articolo ” sull’ inchino” di Oppido porta non a caso il suo nome) e la cosa viene vista normalmente alla luce del sole, allora il problema è culturale e diffuso.

“La n’drangheta, ha fatto sviluppare un senso di sudditanza, dobbiamo partire dall’analizzarlo e rimuoverlo, abbandonarlo definitivamente. Lo Stato è una presenza lenta nelle sue manifestazioni, lontana, un patrigno : lo stato si può fottere la mafia no.

Alzo con fulminea velocità gli occhi dai miei appunti che davanti questa cosa perdono di importanza. Afferro subito la veridicità della frase, ma mi sento offeso in un certo senso. Chiedo di ripetere per essere sicuro di aver capito eh si: avevo capito, anche fin troppo bene. Forse è stato in quel preciso attimo che ho abbandonato “la mentalità mafiosa” . Idealmente allungo la gamba e passo dall’altra parte della barricata, con il potere di una sola frase e avvinto dall’evidenza.

Magari avrà ripetuto altre volte questa frase, o magari no, non so, ma so cosa ha provocato in me .

N’drangheta 3.0

Sul fatto che la ndrangheta sia profondamente radicata anche dove non si manifesta nell’aspetto criminale, siamo d’accordo, ma che oggi si parla di una sua versione “3.0” mi è del tutto nuovo.

Michele mi spiega che le cosche non si fanno più la guerra fra di loro, che non si sparano più , pur continuando ad ammazzare però la società. Hanno imparato l’uso delle nuove tecnologie, hanno nuovi canali e vestono abiti lussuosi: esteriormente nuove vesti, ma alimentata dalla consueta mentalità criminale. Anzi mi descrive una lotta tra la nuova versione istruita e la vecchia animata da valori rurali fintamente sani e fortemente deviati (un altro caso dove vecchio non è sinonimo di esattezza).

Ora il business maggiore è quello della droga e non usa mezzi termini ” questi pseudo “uomini” avvelenano i nostri figli” e non mancano i legami con la massoneria e la politica. Insomma una visione alla quale lui è abituato forse (certamente non rassegnato) ma che per me risulta insostenibile.

Scoprii in me la paura di conoscere troppo, il desiderio di non approfondire, di non nominarla neppure questa asfissiante gabbia che preme su di noi… Non formarmi un idea precisa, di non sapere nomi, volti e finalità, continuare come dice Francesco Bonelli a vegetare… ma a quale prezzo?

“Ali in gabbia, occhi selvaggi”

Chiedo dov’era quando gli è stata comunicata la decisione da parte del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica di affidarlo alle “cure” di una scorta h24.

Quel giorno ero a Sinopoli. C’era stato un omicidio e stavo aspettando che i Carabinieri finissero i rilevamenti. Ricevo una chiamata dalla questura di Reggio Calabria. Nella chiamata venivo invitato a recarmi il prima possibile lì. Lì per lì pensai di aver scritto qualche cazzata”( quello che vedo è un sorriso?)

Cerco di immedesimarmi, di immaginare la scena che evidentemente va ben oltre le mie capacità romanzesche: vedo un uomo che avvicinandosi mi dice “Ciao, lo sai che ti stanno per ammazzare?” e poi il film mentale si blocca, evidentemente sono svenuto, sorrido colpevolmente ad una cosa che provoca ilarità a me soltanto. E me ne vergogno perché da questo punto in poi Michele in qualche modo inizia ad allontanarsi, a sprofondare sempre più nella poltrona, a sembrare più stanco e più solo che mai.

Descrive i fatti con una sofferenza palpabile, la vedo disporsi davanti a me in ogni gesto ed in ogni aggettivo usato.

Parla di un “Presente drammatico. Una vita da recluso. Vorrei solo tornare ad essere un semplice giornalista quello che so fare bene, tornare al mio lavoro. Parlare con la gente, sentirli, andare a raccogliere le mie storie senza scorta, andare al bar in piazza, andare a prendere mia figlia a scuola. Voglio al più presto ritornare ad essere uomo e giornalista comune “

Caro lettore io capivo, sentivo la sua terribile sofferenza, sentivo la costante paura data dal l’incertezza ronzargli intorno occupando molto più di qualche pensiero sporadico. Ma Michele Albanese non è un uomo comune se un procuratore della Repubblica italiana ha mandato a monte mesi di intercettazioni affidandolo all’attenzione di una scorta armata, non prestando neppure ascolto al rifiuto fermo del giornalista pur di assicurarsi la sua incolumità.

Guardo fisso il foglio digitale che ho davanti, non scrivo, non respiro, neppure penso a qualcosa di senso compiuto.

Quando i miei occhi ricadono su di lui, sta accendendo una sigaretta intralciato dagli occhiali rossi che tiene sempre a portata di mano.

Sono frastornato, e la cosa credo sia fin troppo evidente.

Di tutto troppo

Chiamo a raccolta le parti sparse di quello che credevo scontato ma niente risponde all’appello. Batto col dito nervosamente sul tavolo di legno.

Lo guardo, e poi ricado sul foglio luminoso.

” Bisogna cercare di creare maggiore vivibilità per i nostri figli, di creare cose oggettivamente belle, di tornare a studiare la nostra storia, le nostre bellezze. Dobbiamo riappropriarci della nostra Svizzera (si riferisce a questo splendido unico incommensurabile ecosistema chiamato Aspromonte nda). E per farlo ci sono due strade: la presa di coscienza ed il rispetto incondizionato di tutti e tutto. Quello che dobbiamo fare è tracciare una strada, dare un corso nuovo, creare un punto da quale si possa ripartire “

“Aspettative per il futuro?” Inaspettatamente il mio cervello riprende le sue funzioni, prendo nota per un ammonimento severo alle sinapsi.

“Poche. Spero solo che tutta mia sofferenza serva a far prendere coscienza a qualcuno della terribile condizione nella quale viviamo. Non a molti, bastano anche solo 10 persone. Punto e basta.”

Michele coraggio ci siamo quasi, ne restano altri 9.

Punto e basta.

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