BAAAMMM
Tutto inizia con una portiera che viene chiusa, un gesto semplice che ripetiamo centinaia di volte. Turbo cosi quella particolare quiete che pare avvolgere Terranova Sappo Minulio.
Strano posto, paese credo in virtù solo del glorioso passato, oggi più simile ad un villaggio.
Appena arrivato vengo accolto da un cartello che sovrasta la strada, il quale mi informa che sto per entrare nel paese del Crocifisso…
“Neon knight”
Il rinomatissimo Crocifisso riposa in una piccola chiesa con mattoni a vista, perché da un certo punto in poi della nostra storia, il rustico è diventato il canone estetico comune, gli edifici sacri evidentemente non ne rappresentano un’eccezione.
L’interno è spartano, sobrio, intimo (claustrofobico per alcuni).
Difronte a me, appena la vista si abitua alla crepuscolare atmosfera, compare la preziosisima effige custodita fra psicadeliche luci blu.
Mi blocco al centro dell’unica navata confuso.
Piego la testa più volte, mi abbasso sulle ginocchia, percorro lo spazio cercando di capire il perché o la funzione di quelle luci fosforescenti.
Mi siedo continuando a guardare, continuando ad aspettare l’arrivo del “DJ” o di qualcuno che mi spieghi perché uccidere così il sacro in una delle sue solenni manifestazioni, ma non sento musica. Devo arrendermi: non arriverà nessuno a mettere musica.
Tutto potenziale e poco arrosto…
Fuori la giornata è piacevolmente mite, l’aria è tiepida e profumata di mimose.
Percorro a piedi la via principale e rimango colpito dalla cura del posto: tutto é ordinato e pulito, non vedo cassonetti, non vedo volantini accartociati, escrementi di varie dimensioni o colori, il verde è curato, i muri non imbrattati da eterne promesse d’amore; tutto è silenzio ed ordine.
Svolto a sinistra in una piccola via umida ma non buia e vedo l’inevitabile ed insolente muro di abitazioni chiuse.
Col tempo molto in me è peggiorato: sono maggiormente intollerante, ostinatamente cinico, inamovibile nei giudizi : migliaia di case sono agibili e vuote nella chijana, così tante da risolvere le emergenze di altrettante persone. Case chiuse, fabbriche abbandonate , ettari ed ettari di terreni incolti. Una potenziale risorsa di cui nessuno parla. Incuria, noia e apatia le cause di un così grande mancato guadagno.
Vedo tanta povertà mentale nei posti che visito, da non confondere con l’umiltà o con la poca cultura. Quella di cui scirvo è la sensazione di esserlo, l’ingiustificabile e costante insoddisfazione, quella che ci induce ad essere diffidenti e guardinghi, quella povertà percepita ma non reale, quella che fa di un solo telefonino un motivo di infelicità.
Quattro passi e due chiacchere
Mi avvio verso l’unico bar del paese, che data l’ora è chiuso. Seguo le indicazioni verso la chiesa Matrice e strada facendo incontro un uomo: basso e tarchiato sulla settantina. Mi rivolgo a lui chiamandolo come l’etichetta locale impone col termine cioè, “Maestro”.
Perché quì tutti possediamo un’arte, siamo tutti maestri in uno dei mestieri più comuni, e anche se ciò on fose vero, l’avanzare dell’età non ci rende meno degni d’esser così definiti.
Uso il mio accento paesano, sono un chijanotu anch’io, e lo invito a parlare del suo paese, evidentemente è un argomento che non è abituato a trattare.
È sincero il suo modo di parlare, fluido nella narrazione nonostane lo sforzo di chi sospeso come un equilibrista maldestro, cerca di disistricarsi tra sentimenti di amore e repulsione verso il proprio paese.
Mi informa che non hanno più una scuola, il campo da calcio é vuoto, la torre va restaurata, le case patrizie stanno cadendo e che il tempo scorre anche lì come nel resto del mondo.
Guarda lontano, forse ho lasciato trasparire qualche eloquente smorfia che lo ha indotto ad andare indietro con i ricordi. Che immenso tesoro per la comunità sono gli anziani, quali meravigliosi ricordi conservano sotto le rughe del viso. La sua narrazione cambia: mi racconta che esistevano 5 botteghe di generi alimemtari, che il paese alla sera si animava dei canti e delle conversazioni delle migliaia di lavoratoti agricoli. Mi dice che l’aria profumava di sansa mischiata agli odori delle molte cucine. Nostalgico ricorda le cantine dove si vendeva il vino locale, non tace il fatto che la sera erano sempre ubriachi e istintivamente alza la mano destra come a salutare qualcosa o qualcuno da cui ci si separa una volta di troppo.
Ed ecco che forse per colpa mia quel vecchietto così cortese si rabbuia in viso.
Lo guardo con dolcezza e penso a mio nonno, a tutte le volte che andavo troppo di corsa per ascoltarlo.
Chiedo dei suoi nipoti.
Mi informa di essere bisnonno e apprendo la notizia con una sincera partecipazione. Mi racconta molto di loro, i loro nomi, la loro professione, le loro disavventure, qui la privacy è una parola straniera dal poco o nessun senso.
Un capellone con la macchina fotografica che parla anche lui il chijanotu e si interessa di cose che normalmente nessuno nota non è bastato a renderlo diffidente, in barba a chi accusa il Sud di esserlo. Questi uomini non sono diffidenti, sono fieri, saggi e pesano con molta cura ogni parola.
Hanno ricostruito le loro case due volte, cercano di tenere unite e salde le proprie famiglie sparse per la penisola, occupano come meglio riescono il tempo libero e si trovano a lottare non soli con gli acciacchi ma anche le complicanze derivanti dall’assunzione (massiccia) di quei farmaci che invece li dovrebbero alleviare.
La chiesa? Doveva essere rivestita in marmo dice, ma non sono bastati i soldi.
Accenno alle oscene luci al neon mettendone in discussione la bellezza, e lì faccio uno scivolone colossale. Ricevo una risposta brusca ed un brusco commiato: “A noi piace così. Arrivederci.”
Quale grande fierezza la mia gente: ha fatto del vivi e lascia vivere il proprio stile di vita ma mostra tutta la propria inamovibile forza nel difendere ciò che ama.
Arrivederci
Terranova, meteo a parte, per quel che ho visto potrebbe essere benissimo un paesino del Canton Ticino: essenziale, ordinato, accogliente e non sprovvisto di un passato patrizio che lo rende così piacevolmente interessante. Un posto dove le cose della vita riprendono le giuste proporzioni e i danni collaterali di Facebook sono argomento da telefilm.
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